Roma, 26 giugno 2025 – Giovanna Fotia, rappresentante paese di WeWorld in Palestina, come hanno vissuto le ong questi 12 giorni in cui Gaza è uscita dai titoli e dalle agende internazionali?
“Con grande preoccupazione per la paura dell’escalation e poi con una certa delusione e frustrazione per il fatto che l’attenzione mediatica si fosse concentrata altrove e la situazione di Gaza, che stava peggiorando da mesi, era stata dimenticata”. Che effetto fa essere ignorati mentre continua l’emergenza umanitaria?
“Non è certo un bell’effetto, ecco. Non si può trattare come una crisi cronica quella che si trova invece in una fase acuta. C’è stato un aumento dei morti legato alla distribuzione degli aiuti della Gaza Humaritarian Foundation. In un solo giorno sono decedute oltre quaranta persone. Trattare queste stragi come qualcosa di cui si può anche non parlare non è corretto”.

Cosa stava succedendo a Gaza mentre si parlava solo di Iran e Israele?
“Secondo i dati ufficiali nella settimana dall’11 al 18 giugno ci sono stati oltre 530 morti e quasi 2.500 feriti che si aggiungono al conteggio generale. La strage degli aiuti umanitari si è verificata la settimana dopo. Sono continuati anche i vari black out che hanno causato interruzioni delle comunicazioni ancora più spesso, e questo ovviamente mette in difficoltà il nostro lavoro perché abbiamo difficoltà di coordinamento con lo staff. La solita routine e sempre peggio”.
La guerra altrove ha rallentato o bloccato gli aiuti?
“Direi che la situazione è rimasta la stessa. L’accesso agli aiuti ha vari ostacoli da superare e funziona in modo centellinato e con quantità assolutamente insufficienti. Nell’ultimo mese alcuni elementi come il cibo sono legati al meccanismo di distribuzione della Gaza Humanitarian Foundation che non è efficace, non è efficiente e si sta dimostrando anche pericoloso. Per alcune categorie di aiuto si va avanti, come per l’acqua, anche se con ostacoli”.
In un contesto che non ha più riflettori puntati addosso cambiano le priorità, le paure, le dinamiche tra popolazione e operatori?
“Dal punto di vista operativo è stato simile. La tensione mediatica e politica ha però i suoi effetti e la disattenzione mediatica e diplomatica alla fine fa sì che le cose vadano peggio. Per noi? Questo è un momento difficile perché gli ostacoli alla distribuzione degli aiuti umanitari rendono la popolazione sempre più disperata. Quindi abbiamo problemi di attacchi ai convogli e di rischi per gli operatori, anche se con la comunità abbiamo comunque un legame forte e preesistente”.
Come si guardava alla guerra Iran-Israele da Gaza? C’era il timore che potesse aggravare la situazione anche lì?
“Sì, il timore c’era sia a Gaza che in Cisgiordania. Tutta la West Bank guardava con preoccupazione al rischio di un’escalation regionale e di un allargamento del conflitto. C’era anche la paura che l’esigenza di difendersi da parte di Israele diventasse un pretesto per giustificare quello che succede a Gaza. La fine della guerra dei 12 giorni tranquillizza, ma non incide sull’operazione militare di Israele in Palestina. Torniamo al centro del mirino, sì. Ma anche dell’attenzione e questo è un bene perché c’è molto di cui parlare”.